La Cannabis light

Un po' di storia

La prima disciplina italiana degli stupefacenti (legge n. 18 febbraio 1923, n. 396) indicò tra le droghe vietate solo gli oppiacei e la cocaina punendone il commercio, non anche la coltivazione; il codice penale del 1930 trattò i reati in materia di stupefacenti ma non fornì criteri per individuare le sostanze vietate e non si interessò alla coltivazione.

La legge 22 ottobre 1954 n. 1041 pur vietando «la coltivazione del papaver somniferum e di altre piante dalle quali si possono ricavare sostanze comprese nell’elenco degli stupefacenti» non menzionò espressamente la canapa.

La canapa da fibra, detta anche canapa industriale, infatti, è stata utilizzata da sempre come materia prima, in particolare nell’industria tessile e alimentare. L’Italia, fino agli anni ’50, era il secondo produttore mondiale, vantando una tradizione di eccellenza se solo si considera che già nel ‘600 la flotta britannica si approvvigionava delle vele made in Italy.

Dopo che la produzione della canapa a fini industriali quasi scomparve, rimpiazzata da fibre tessili sintetiche ed osteggiata da una politica mediatica volta al contrasto della “canapa” senza distinzioni, l’art. 26 della legge 22 dicembre 1975, n. 685 vietò la coltivazione anche della canapa indiana se non, previa autorizzazione, «per scopi scientifici, sperimentali o didattici».

La conseguenza fu che la coltivazione di canapa sativa (ossia la canapa industriale), già quasi abbandonata a favore delle fibre sintetiche ottenute con il petrolio, ebbe il colpo di grazia, dal momento che risultava difficile distinguere le due coltivazioni e i rischi legali per i produttori superavano di gran lunga i possibili vantaggi.

 

La Canapa nel testo unico Stupefacenti.

Il quadro normativo delineatosi con il d.P.R. n. 309/1990 se da un lato considera “stupefacente” «la cannabis e i prodotti da essa ottenuti», senza effettuare alcuna distinzione rispetto alle diverse varietà e senza indicare alcuna soglia di tolleranza rispetto alla percentuale di THC, dall’altro esclude dalle coltivazioni vietate la canapa «per la produzione di fibre o altri usi industriali», non servendo, tuttavia, ciò a scongiurare quegli stessi rischi prima lamentati.

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La legge n. 242 del 2016

Le finalità della norma

Soltanto nel 2016 con la legge n. 242, il Legislatore ha cercato di risollevare un settore agricolo quasi scomparso con l’aperta finalità di sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della canapa (cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione.

Occorreva, prima di tutto, evitare che il coltivatore potesse incappare nei rischi legali ed economici già sopra evidenziati e, a tal fine, ha previsto:

– che la coltivazione di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, sia consentita senza previa autorizzazione;

– che tali coltivazioni non rientrano nell’ambito di applicazione del d.P.R. 309/1990;

– che finché la pianta di canapa abbia una percentuale di THC fino allo 0,6% e fin tanto che il coltivatore conservi cartellini e fatture di acquisto delle sementi, non può essere contestata alcuna responsabilità e, soprattutto, la piantagione non può essere distrutta;

– che i controlli sul tenore del THC devono essere eseguiti con procedure di prelievo e di esame in linea con le norme europee sulla determinazione della percentuale di THC nelle coltivazioni;

– che non v’è responsabilità penale del coltivatore anche se la percentuale di THC superi la soglia dello 0,6%, purché possa comunque dimostrare il lecito acquisto delle sementi certificate, anche se, in tal caso, la piantagione verrà sequestrata e distrutta.

Si è cercato, in altre parole – senza riuscirci appieno tuttavia – di mettere al riparo il coltivatore dal rischio di essere coinvolto in procedimenti penali, vedendo mesi del suo lavoro frustrati da sequestri o distruzioni.

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